Apparso sulla Rivista 3Valli il 15.07.2020
Un rapporto nuovo con lo spazio e con il tempo.
La situazione drammatica in cui ci troviamo in questi giorni di emergenza e di isolamento ci costringe a esaminare con occhi diversi tutte le nostre abitudini e le nostre certezze. Ciò che fino a ieri ci sembrava assolutamente indispensabile per la nostra esistenza individuale e sociale è improvvisamente confinato, in nome della salute e della vita.
La contagiosità mortale del virus ci priva delle abitudini quotidiane consolidate come la scuola, il lavoro e la produzione e ci sbatte in faccia la questione delle priorità e ci costringe, come sempre capita nei momenti di crisi, a capire ciò che utile per davvero.
La necessità di correre, di produrre, di rispettare scrupolosamente scadenze e obiettivi, di viaggiare e consumare è messa in ginocchio da qualcosa di invisibile e quindi ancor più pauroso che ha il potere di corrodere dall’interno tutto un sistema economico fondato su valori fondati esclusivamente sulla crescita.
Ora siamo qui, dentro casa, ad aspettare che passi, attendendo tempi migliori, confidando nella ragione delle persone, nelle decisioni dei governi, nella ricerca scientifica, nella pazienza. Quello che possiamo e dobbiamo fare è aspettare, stabilendo un nuovo rapporto con lo spazio e con il tempo.
Non l’abbiamo mai fatto e non è mai capitato nemmeno ai nostri genitori. Sono convinto che si tratti di sfruttare questo stato di assoluta e sofferta eccezionalità per ripensare noi stessi, i nostri desideri più autentici e il nostro rapporto con gli altri e con il mondo.
A cosa serve la bellezza di uno sguardo? A cosa serve l’eleganza di un gesto? A cosa serve l’affetto di una terra? Forse a nulla o forse a tutto. E ancora: a cosa servono l’amicizia, l’amore, la poesia? A nulla, eppure, ora l’abbiamo capito, sono tutto.
Il mio pensiero corre alle sette ragazze e ai tre ragazzi che nel Decameron fuggono dalla Firenze appestata del 1348 per sfuggire alla morte, abbandonando una città senza regole e vita sociale. Durante le dieci giornate, in un luogo esterno e bellissimo e in un tempo sospeso, costruiscono una vita alternativa e utopistica, anche se provvisoria. Quali sono gli strumenti indispensabili per vivere? Quale la società ideale? Nella città c’è il contagio, c’è la morte, la degenerazione della società stessa e vengono a mancare completamente le cose utili al vivere civile; nel contado i dieci ragazzi confinati propongono un nuovo modello fondato sulla bellezza, la libertà e la letteratura.
Io spero che la tremenda crisi che stiamo affrontando ora in tutto il mondo ci permetta di progettare, al tempo stesso con prudenza e con audacia, un mondo nuovo, un’economia diversa, fondata principalmente sui valori umani e la solidarietà anziché sulla ricerca dell’immediato profitto, sul rispetto totale della natura e dell’umanità anziché sull’egoismo. Spero che la solitudine del “distanti ma vicini” non si traduca in un senso passivo di abbandono o depressione, ma diventi un’opportunità per capire che se c’è qualcosa da non buttare è proprio ciò che a volte ci può sembrare inutile.
Yannick Demaria, Giubiasco-Acquarossa, 22.03.2001