Negli scorsi articoli abbiamo potuto approfondire i temi della mascolinità come strumento di dominazione e fabbricazioni sociali, della mascolinità egemonica e della mascolinità tossica, tre aspetti ancora purtroppo presenti nella nostra società perché radicati nel modo di pensare del sistema patriarcale che è il modello dominante anche nel mondo occidentale. Questo quarto articolo vuole mostrare la visione politica che la Gioventù Socialista applica e cerca di trasformare in provvedimenti concreti attraverso iniziative o semplicemente aprendosi al dialogo verso un mondo ancora troppo poco conosciuto. Per farlo, ci affidiamo a due testi e concetti di riferimento, che utilizziamo come lente attraverso la quale guardare la nostra situazione su scala locale, adattando una questione diffusa in tutto il mondo al nostro contesto e alle sue peculiarità. Tali concetti sono l’ “intersezionalità”, introdotta da Kimberlé Crenshaw nel 1989 – che illustra come le discriminazioni a volte si sommino e rendano ancora più difficile l’integrazione di alcune persone nella società cosiddetta “mainstream”, come le donne di colore (discriminazione di genere e di etnia) o le donne transgender – e il queer femminismo, che può essere associato alla teoria filosofica-scientifica del Gender Trouble di Judith Butler introdotta nel 1990.
Quest’ultima visione unisce dei presupposti biologici e psicologici alle conoscenze letterarie e filosofiche, per decostruire delle strutture mentali fortemente radicate nella società, che hanno portato a diversi tipi di violenza e discriminazione. La nostra società, basata ormai su un modello patriarcale che vede l’eterosessualità come unica opzione naturale e di conseguenza “scelta obbligata”, ha per decenni isolato e discriminato quelle persone che uscivano da questo “copione”. Seguendo la metafora teatrale, potremmo dire che la visione di un genere binario, legato alla natura biologica di una persona (l’organo genitale con cui è nata), sia il risultato di un’interpretazione culturale che si manifesta in una sorta di “messa in atto”, o meglio “performance”, di genere, in cui chi non rispetta le linee guide dettate dal regista-patriarcato, che non rispetta gli stereotipi, resta non solo escluso dal sistema (ad esempio non ha delle leggi specifiche alla propria situazione) ma rischia molto spesso di subire violenza fisica o psichica. Questi ruoli preconfezionati sono ben noti e per fortuna sono sempre meno stagnanti nella nostra società: l’uomo come capofamiglia e forza lavoro, figura economica che sostiene la famiglia e la donna educata al fine di essere una buona moglie e madre, che si occupa della crescita dei figli, per prepararli a entrare in questo sistema, e del mantenimento della casa.
L’auspicio di Judith Butler, che è quello ripreso dalla GISO, è che la decostruzione di questo modello inadeguato al fine di ottenere un’uguaglianza non solo tra uomo e donna, ma tra tutte le sfumature che fanno parte della natura umana, passi dallo smantellamento dell’idea di genere binario (distinzione tra maschio e femmina). Un’idea troppo semplicistica, ma così radicata nelle mentalità che storicamente ha indotto chi la sostiene a cercare di rimettere “sulla retta via” chi invece diverge, come se fosse affetto da una patologia, e non potesse esprimere ciò che effettivamente sente di essere, fuori da questi schemi stereotipati. La violenza subita da queste persone serve a garantire la continuità di questo sistema che non prevede dei modelli non binari e vi si oppone in maniera piuttosto repressiva e attraverso l’ostentamento del proibito. Per poi ottenere anche l’effetto opposto, perché la repressione e i divieti sfociano spesso nell’abuso di ciò che è considerato vietato.
L’azione verso la decostruzione di questa mentalità passa attraverso elementi basilari della nostra vita, oltre che da cambiamenti strutturali della società. Il vero abbandono della mentalità potrà essere raggiunto quando tutto ciò che è stato considerato “anormale” dalla società, venga considerato come facente parte, in maniera naturale, come dato per assunto. Per questo il femminismo dovrebbe – ed è ciò che cerca di fare – identificare in quali modi l’uguaglianza tra i generi venga frenata, attraverso il sistema politico ma anche uno degli elementi più basilari della nostra esistenza: il linguaggio. Fare in modo che anche il modo di parlare o descrivere una realtà sia spontaneo e naturale, e non suoni più come qualcosa di eccezionale, di fuori dall’ordinario. Anche il fatto di fare le rivendicazioni da parte di “noi donne!”, in modo esclusivo, è messo in discussione: noi in realtà vogliamo scendere per le strade a fianco degli uomini e della popolazione queer, di chiunque sostenga questa “lotta”, desideriamo un movimento inclusivo.
Vogliamo quindi sostenere un femminismo contro il genere binario che riconosca e non ignori la questione dell’intersezionalità di cui si è accennato all’inizio dell’articolo, che incoraggi gli uomini a prendere parte a queste rivendicazioni, abbandonando una sorta di competizione che genera ingiustizie, in favore di azioni collettive che coinvolgano tutti i generi. Vogliamo riuscire a decostruire questi modelli patriarcali, sistemi di potere legati alla mascolinità tossica, che soffocano l’uguaglianza e reprimono la gran parte della popolazione da tempi ormai immemori.
Paola Falconi