La nostra battaglia

25.01.2019

Premessa: so bene che questa non è la prima volta che un’attivista minorenne arriva alla ribalta internazionale, spesso e tristemente per venire trattato/a quasi come un fenomeno da baraccone, un’interessante esemplare che va esposto in tutto il mondo affinché la cultura dei social media e dell’informazione lampo possa permettersi digodere dell’effetto di mille paroloni e di commoventi clip video sotto cui commentare “Ne sa + lui dei ns politici!!1”. Casi rispettabilissimi includono Xiuhtezcatl Martinez, il giovane azteco leader degli “Earth Guardians” e già a 16 anni sul palco dell’ONU. O Malala Youszafai, che fin da giovanissima si batte per il diritto delle donne all’educazione, in grado di inserire nel suo cabinetto dei trofei un premio Nobel per la pace a soli 17 anni. Mi perdonino questi giovani infinitamente più coraggiosi e competenti di me, ma oggi vorrei parlare di qualcun altro, e soprattutto delle implicazioni sociali del suo attivismo, in grado di segnalare (speriamo soltanto l’inizio di) un punto di svolta per la storia umana.
Il suo nome è ormai tanto sulla bocca di tutti che fa quasi ridere doverlo riportare; voglio infatti scrivere di Greta Thunberg, recentemente arrivata a Davos per presenziare al WEF. Per tutte e tre le persone che non sapessero di chi stiamo trattando, Greta è diventata famosa per la sua ostinazione nel protestare davanti al parlamento svedese in favore di una politica climatica più rigida, date le recenti ondate di caldo e relativi incendi boschivi nel Paese scandinavo. Da mesi, passa ogni venerdì seduta davanti al palazzo, con il suo cartello “Skoltreijk för Klimatet”, “sciopero scolastico per il clima”.
Ora, perdonami Greta, se sembra che ti voglio sminuire con ciò che segue. Non è così, anzi.
L’apparentemente semplice sforzo di questa ragazzina dagli occhioni azzurri è riuscito nel difficile compito di pizzicare alcune delle corde che ci uniscono come specie, quella solidarietà che, sempre più raramente, riesce a unirci. Paesi Bassi, Germania, Danimarca, Australia, Finlandia, e recentemente persino la nostra piccola Svizzera, hanno deciso di seguire il suo esempio, dando vita a una serie di manifestazioni giovanili per il clima.
Una bella notizia direte, e in parte dico anche io. Sicuramente. Quello che non è buono è ciò che traspare dalla sola esistenza di questo fenomeno; un mondo, delle strutture di potere tali da spingere gli studenti – e tra parentesi, non si parla solo di universitari, dei “figli di papà” del ’68, ma di ragazze e ragazzi delle medie, dei licei – a scendere in piazza, in un momento della loro vita in cui le uniche preoccupazioni dovrebbero essere lo studio, la cultura, lo svago, e in genere vivere la propria vita. Non era mai successo prima, nella storia dell’uomo, che gli albori di una nuova generazione dovessero mandare un messaggio tanto chiaro: non c’è più tempo. Non ci è più concesso il lusso di rispettare le ridicole risoluzioni degli accordi sul clima, che parlano di limitazioni dello 0.005% entro il 2460, non ci è più concesso mentire a noi stessi affibbiando la colpa del riscaldamento globale al fatto che usiamo cannucce di plastica da Starbucks e non mangiamo tofu ogni venerdì, non ci è concesso il tempo per finire gli studi e poi, eventualmente, pensarci. È palesemente sottintesa la tristezza di un mondo in cui sono i 15enni a dover smuovere l’opinione pubblica, a dover ricordare agli adulti che, molto brutalmente, se non ci si tira in riga non vediamo un altro secolo.
La commissione per l’ambiente ONU parla di radicali cambiamenti in ogni campo della società umana entro pochissimi anni se si vuole poter sperare di evitare scenari definiti, letteralmente, “apocalittici”. La nostra spocchia di occidentali ci fa da sempre sentire al sicuro, come se fossimo destinati a sopravvivere perché inerentemente meritevoli in base al fatto di esserci preoccupati del tema. Ma non illudiamoci; la prima ondata di rifugiati climatici è vicina, le prime grandi serie di incendi boschivi e campali sono già avvenute, le prime tempeste sono passate. Avvisaglie di un futuro minaccioso, a cui siamo rimasti sordi per troppo tempo.
Ho deciso di intitolare questo articolo “la nostra battaglia”, perché di questo si tratta: della più grande sfida che attende il futuro, che ha in palio una vita da vivere su un pianeta che non siamo stati noi a rovinare. Battaglia, perché il tempo dei negoziati e dei propositi è scaduto e ora rimane solo l’azione radicale. Nostra, perché non siamo stati noi a fare le scelte che ci hanno portato fin qui e tuttavia ci troviamo a doverne affrontare le conseguenze. La, perché se non sarà vinta, non ce ne saranno altre.
Articolo di Angelo Mordasini apparso sul GAS il 24 gennaio