L’allarme ecologico suona, nuovamente. Suona da almeno 50 anni, se prendiamo come riferimento il pioneristico – seppur impreciso – appello del Club di Roma. È suonato ancora anche lo scorso anno, con il rapporto speciale dell’IPCC sugli scenari superiori agli 1.5 gradi di aumento di temperatura rispetto ai valori preindustriali (limite fissato alla COP21 di Parigi da quasi duecento Nazioni, tra cui la Svizzera). Un rapporto dalle previsioni nefaste per il clima e per l’uomo: perdita di biodiversità terrestre e marina, rischi legati alla salute umana, alla sicurezza alimentare e all’offerta di acqua dolce. Qualcosa di più preciso, certo, ma niente di nuovo. Un allarme concreto e condiviso suona ormai da decenni, nella relativa immobilità a livello internazionale. Sì, perché come mostra lo stesso rapporto, quanto intrapreso finora in termini di riduzione d’emissioni di gas serra è ampiamente insufficiente e porterebbe il riscaldamento a ben 3 gradi in più rispetto ai livelli preindustriali. Il che sarebbe un disastro ecologico e sociale, oltre che – diciamolo – una chiara e assurda inefficienza economica.
Il problema è politico. È politico proprio perché il nostro sistema economico – l’economia di mercato – fallisce nel risolverlo autonomamente. Il prezzo che paghiamo su beni e servizi non copre la totalità dei costi causati, in quanto non considera per esempio le conseguenze negative legate all’emissione di gas serra. Problematica complicata da svariati fattori politico-economici, tra i quali: l’eterogeneità attuale e storica delle emissioni a livello nazionale; l’eterogeneità delle conseguenze causate dal cambiamento climatico, data da differenti vulnerabilità sociali, economiche e climatiche nel mondo; il lasso temporale tra emissione e costi del riscaldamento climatico, che – unita all’irrazionalità umana (leggasi “inconsistenza temporale”) – porta a posporre soluzioni efficienti per la società. Il problema è politico, e lo hanno capito le migliaia di giovani che stanno protestando in questi mesi. Certo, anche loro beneficiano del benessere economico di queste scelte insostenibili, ma – almeno politicamente – non se lo sono scelti. La speranza è che il loro grido di allarme sia più forte di quello della comunità scientifica.
Affrontare la crisi climatica prima che sia troppo tardi.
Ma come? Prendiamo l’esempio francese, dove il Governo Macron ha vacillato di fronte alla protesta dei “gilets jaunes” in seguito all’aumento dell’imposta sui carburanti. Tassare la materia prima di attività inquinanti può essere considerato un modo di agire efficiente per la lotta al riscaldamento climatico, se ponderato sul giusto livello e combinato con alternative serie dal punto di vista della mobilità pubblica e verde. Va d’altro canto riconosciuto che una tassa sui combustibili fossili è regressiva e che le classi medio-basse occidentali stanno vivendo un’epoca austera. Complici le politiche neoliberiste che hanno spostato le tassazioni vieppiù dai patrimoni ai redditi medi, anche per via di un’accresciuta mobilità internazionale dei grossi capitali e delle persone facoltose. Complici anche una redistribuzione degli aumenti di produttività nettamente diseguale e, per alcuni paesi, un’evoluzione tecnologica che crea un mondo del lavoro a due velocità.
La Francia questa evoluzione la conosce bene, anche grazie all’economista Thomas Piketty, che con il suo bestseller Il Capitale nel XXI secolo e con un costante lavoro nel tracciamento delle disuguaglianze mondiali (cfr. https://wid.world/) ha fatto breccia nell’opinione pubblica. Un’interessante analisi dell’Institut des Politiques Publiques, ripreso dal Financial Times, ha sottolineato che i cambiamenti fiscali francesi previsti per il biennio 2018-2019 penalizzano il 25% più povero delle economie domestiche e avvantaggiano sproporzionatamente l’1% di popolazione più ricco.
Per salvaguardare la vita dell’uomo sul pianeta servirà dunque un delicato equilibrio capace di coniugare riforme ambientali e giustizia sociale. Tornando al caso svizzero, una compensazione potrebbe venire dalla riduzione dei premi cassa malati, come per esempio proposto nelle ultime settimane dal PSS. Oppure, come suggerito recentemente dall’economista svizzero Ernst Fehr, i proventi di una tassa sul CO2 potrebbero essere ridistribuiti poi in varie forme alla popolazione. La sfida è complessa, ma una cosa è certa: scientificamente e politicamente, questo è il momento di agire!
Articolo di Andrea Ghisletta apparso sul Corriere del Ticino il 20 marzo