Anche gli eritrei pattinano sul ghiaccio

03.12.2015

di Febe Tognina


“Un 32, due 39 e un 44 per favore”, così comincia il pomeriggio dello scorso fine settimana.
Nello spogliatoio lasciamo le scarpe e lentamente ci avviciniamo alla pista, dondolando ad ogni passo, dall’alto dei dieci centimetri aggiunti dalla lama dei pattini. Siamo nei paraggi del centro per richiedenti l’asilo, quello dove l’anno scorso ho lavorato come volontaria per alcuni mesi. È stato l’inizio del mio interesse per la migrazione, mi ha dato una conoscenza del sistema dell’asilo, oltre a storie e informazioni. E da quel periodo rimangono alcune amicizie ancora importanti oggi. I pattini numero 44 sono per Samir, che ha lasciato la Siria per raggiungere la famiglia già stabilitasi in Svizzera. Dal suo arrivo si è subito messo a disposizione come mediatore linguistico e culturale tra impiegati del Centro di prima accoglienza e gli altri richiedenti d’asilo. In un anno non ha perso la sua apertura nei confronti degli altri, che mostra soprattutto nelle nostre visite a diverse famiglie migranti.
Una di queste famiglie è eritrea: la mamma con due dei suoi tre bambini che è riuscita a portare in Svizzera, il terzo aspetta in Sudan. Non è una situazione facile. Ma ci sono anche delle soddisfazioni: nel corso dell’ultimo anno Isaias e Abebe sono stati integrati in una scuola elementare e stanno imparando il francese, che ora parlano già meglio di quanto io possa fare dopo dieci anni. Tra loro è già diventata la lingua principale, dalle loro discussioni la madre è esclusa: Amrech non sta avendo la stessa facilità a imparare la lingua e integrarsi.
Vivendo a poca distanza da loro, mi sono ripromessa di essere più presente al fine di rendere la mia nazione una nuova e migliore casa per loro. Arriviamo sul ghiaccio: per tutti i primi passi sulla superficie liscia sono incerti e instabili. Però non fa molto freddo e dopo aver risolto qualche problema di stringhe ci ambientiamo e ci scateniamo tutti e quattro sulla pista. I due bambini saettano in lungo e largo attaccati ai loro coni e noi subito dietro, la loro mamma sorridente ci guarda dalla balaustra. Dopo molto tempo torniamo sulla terra ferma. La fatica e la stanchezza iniziano a farsi sentire e i bambini hanno voglia di andarsene in preda all’appetito. Li capisco: per me era la stesso quando ero più piccola. Quando ancora ero io a essere portata a spasso dai più grandi, queste avventure mi mettevano fame e avevo sempre bisogno di recuperare le energie. Alla chiusura della pista di pattinaggio andiamo allora a mangiare un kebab, e lì incontriamo un uomo venuto dal Marocco che saluta in arabo la nostra combriccola multiculturale. Ci sediamo, sono di fronte alla mamma ancora sorridente e osserviamo i suoi figli. Mangiano di gusto il panino che è quasi più grande di loro e viene da lontano, come loro.
Dopo il panino c’è il caffè, è Amrech che insiste, vuole offrircelo per cercare di equilibrare le spese della giornata, non ha voluto accettare che pagassimo sia l’entrata sia la merenda.
Alla fine della giornata Abebe mi abbraccia prima di salire sul treno. “Alla prossima” mi dice, “come sempre”.